Anna Maria Bellesia, La Tecnica della scuola, 16.3.2017
– Si è aperto un interessante dibattito sull’utilità dell’alternanza scuola lavoro secondo le modalità previste dalla legge 107/2015. Finora, come leggiamo sulla stampa, gli scenari appaiono piuttosto deludenti rispetto alle finalità di innovazione e di sviluppo di competenze utili, certificate e spendibili nel mondo del lavoro.
Le voci critiche sono numerose, e anche gli osservatori più cauti devono riconoscere le difficoltà. Soltanto Confindustria difende ad oltranza questa “conquista” e continua a ribadire “no a passi indietro”.
Fa bene il sottosegretario Toccafondi a ricordare che “è necessario progettare attentamente i percorsi, che non possono essere frutto di improvvisazione, e formare adeguatamente i docenti”. La formazione però avrebbe dovuto precedere l’azione, in modo da sviluppare la capacità progettuale, di gestione, di valutazione e certificazione. Invece non è partita secondo la tempistica necessaria, benché indicata tra le priorità del Piano nazionale.
Di fatto le scuole si sono trovate da un anno all’altro a dover organizzare percorsi di ASL di 200 ore nei licei e di 400 ore nei tecnici e professionali, partendo da zero, cercando i soggetti ospitanti, facendo le convenzioni, organizzando la co-progettazione curricolare, curando l’esecuzione dell’esperienza e la valutazione finale.
Certamente si segnalano alcune esperienze positive, che si contrappongono però alle molteplici difficoltà in cui si muovono quasi tutte le scuole.
Cerchiamo di essere oggettivi e di guardare le evidenze. La legge 107/2015 ha imposto per l’ASL un monte ore considerevole, da svolgersi negli ultimi 3 anni. Ha ampliato d’altro canto le modalità e i soggetti presso i quali è possibile effettuare l’esperienza. Ma non basta.
Le difficoltà riguardano vari aspetti. In primis il reperimento dei soggetti ospitanti, in modo da offrire realmente agli studenti una opportunità significativa in termini di orientamento e di sviluppo di competenze. I numeri del primo monitoraggio fatto dal Miur fanno capire che il problema c’è. A livello geografico emergono ulteriori difficoltà nelle regioni meridionali, mentre le notizie che frequentemente leggiamo sui giornali ci dicono che siamo lontani da traguardi di qualità.
All’interno delle scuole, l’obbligo di organizzare così tante ore ha generato molta improvvisazione. Se da un lato la formazione per i docenti è in ritardo rispetto ai bisogni, dall’altro i dirigenti non sempre sanno utilizzare al meglio le risorse umane. Una delle domande più ricorrenti è “ma sono obbligato a fare il tutor? Nessuno dovrebbe essere obbligato, perché la Guida operativa predisposta dal Miur nel 2015, nel delineare la “funzione strategica” del tutor, dice che questo deve essere “designato dall’istituzione scolastica tra coloro che, avendone fatto richiesta, possiedono titoli documentabili e certificabili”. Il fatto dunque che spesso non si riesca a valorizzare ed utilizzare al meglio le risorse umane da coinvolgere nel progetto la dice lunga sulle possibilità di successo rispetto alle finalità.
Altra criticità riguarda la valutazione e certificazione delle competenze acquisite. In questo campo ogni scuola fa da sé, fantasiosamente per lo più. A parte qualche lodevole progetto, fatto come si deve e selezionato come modello dall’Indire, l’improvvisazione regna sovrana. Neppure i referenti di progetto hanno ricevuto una formazione adeguata. Si aspetta che le scuole sperimentino per offrire a posteriori qualche buona pratica da imitare.
La cosa più sensata sarebbe che il Miur rivedesse il monte ore obbligatorio che è stato imposto e prevedesse una certa gradualità per dare attuazione alle novità. Sarebbe bene infine che l’Indire non si limitasse a proporre qualche volume/collezione di esperienze di centinaia di pagine, ma offrisse un supporto concreto almeno relativamente a cosa e come valutare.