di Claudio Tucci, Il Sole 24 Ore, 3.3.2017
– Da un Paese che ogni anno discute sulle disparità dei criteri di valutazione degli studenti nelle diverse regioni italiane (con un Sud più di “manica larga”, ma poi indietro, rispetto al Nord, nelle prove oggettive in italiano e matematica) ci si aspetterebbe un potenziamento dei test Invalsi.
E invece nell’Italia “dell’istruzione a testa in giù” si rischia di imboccare la direzione opposta: in parlamento infatti una larga fetta di Pd e maggioranza, nell’esaminare il Dlgs attuativo della «Buona Scuola» di riforma degli esami di Stato, starebbe pensando di eliminare qualsiasi attestazione dell’esito dei test Invalsi al termine di medie e superiori.
Una scelta che si fa fatica a comprendere, e che – se sarà avallata dalla ministra Valeria Fedeli – comporterà un netto passo indietro rispetto alla normativa attuale, voluta da Beppe Fioroni, che viceversa proiettava i test Invalsi all’esame di Stato, valorizzando il punteggio ottenuto dagli alunni.
Già l’attuale versione del decreto attuativo della legge 107 è stata un compromesso: si prevede infatti che i test nazionali in italiano, matematica e inglese entrino in quinta superiore, e la partecipazione (attenzione, non il loro superamento) diventa, per i ragazzi, requisito d’ammissione alla Maturità. In terza media, poi, l’Invalsi addirittura non farà più parte, come accade adesso, dell’esame di licenza, ma si svolgerà ad aprile.
Due frenate, quindi, a cui ora se ne potrebbe aggiungere una terza: l’eliminazione di ogni traccia del punteggio conseguito, dicendo così «addio» agli unici dati comparabili sui livelli di competenza raggiunti da ciascun studente.
In una sola mossa, insomma, si finirebbe per penalizzare famiglie e ragazzi; ridando legittimazione alla parte più sindacalizzata del mondo della scuola (oggi in minoranza). Pur con tutti i limiti legati a prove standardizzate, la comunicazione a genitori e agli stessi studenti dei punteggi aiuta a capire la qualità dell’apprendimento. Sull’inglese, poi, una certificazione ad hoc della scuola evita la frequenza di corsi a pagamento (che potrebbero permettersi solo nuclei agiati). Per non parlare della futura possibile semplificazione dei test di accesso all’università (una volta che si dispone delle prove Invalsi).
E senza considerare, inoltre, che rendere questi test “formalmente obbligatori”, ma senza conservarne tracce, rafforzerà l’atteggiamento di disinteresse. In altre parole, se a contare è la sola partecipazione, ogni ragazzo sarà tentato di “farli tanto per farli” per adempiere a un fastidioso obbligo. Sbagliando approccio, certo; ma con il risultato di darla vinta a quel pugno di docenti, da sempre ideologicamente contrari a merito e pagelle.